Chi ha investito in una buia notte d’inverno Manuel Romualdi? L’hanno condannato a 28 anni per aver assassinato la fidanzata 19enne, la bellissima Luce Anselmi, ma ne ha scontati solo 13 perché detenuto modello. A fatica s’è rifatto una vita, un fornaio dal gran cuore lo ha assunto: “Ce l’ha segnalato il maresciallo dei carabinieri come caso umano, per tenerlo fuori da tentazioni e dargli una possibilità”. Ma una notte, mentre andava al lavoro in motorino, un’auto lo ha preso in pieno. Così la sua speranza è stata gelata, la banalità del male ha vinto. Disgrazia o omicidio premeditato? Un pirata della strada o una spedizione punitiva di qualcuno che non riesce a metabolizzare, elaborare un lutto pur grave? Un take d’agenzia in una redazione periferica della Rai, un cronista di razza amante del proprio lavoro come pochi, ormai, in un mestiere inaridito da militanze ossessive, menzogne ben confezionate, reticenze smaccate e zerbinaggi spudorati, e si mette in moto il meccanismo di un’inchiesta parallela a quella ufficiale, con cui pure s’intreccia, che svela una provincia malata come e forse più della metropoli – siamo in Emilia Romagna, a Bertinoro – dove i sentimenti sono vissuti con un’intensità rabbiosa e straniante, all’insegna dell’oraziano carpe diem, e i mali del XXI secolo (la droga per esempio, la più dirompente) sono amplificati e dilatati sino alla trasfigurazione. . . . E’ il backstage di “Madre Vendetta” (storia di un perdono impossibile), di Giancarlo Trapanese, Vallecchi, Firenze 2012, pp. 284, € 14.50, collana “Le Stelle”. Un romanzo incalzante, dallo stile piano, sobrio, che riconcilia col grande giornalismo investigativo e analitico, ma senza i continui coup-de-thèatre cui altri autori ci hanno abituati, in bilico fra Tenente Colombo e Montalbano. Lo scavo di Trapanese è sociologico e antropologico, ma anche linguistico (belle le battute in dialetto romagnolo, opportunamente tradotte dallo scrittore per noi che viviamo distanti dai luoghi dell’azione e del backgrpund), la scannerizzazione del vissuto di Romualdi procede senza clamore ma suggerendo continue sorprese che pian piano compongono un puzzle veritiero intriso di ironia a volte lieve a volte amara, ma sempre capace di un realismo a tratti temperato di lirismo che si rivela la cifra vincente del libro. Cronista di una razza in via d’estinzione, Trapanese – che si ispira a un fatto realmente accaduto - ha in Catanese un alter ego in cui proietta il suo vissuto professionale, inclusa una moglie paziente e saggia e figli sbrigativi . Il giornalista emana quell’odore di vecchia tipografia con i caratteri di piombo fuso e il proto brontolone che tormenta l’orologio, ma anche il giusto disincanto con cui affrontare un mestiere un tempo definito il più bello del mondo e che oggi, sopraffatto dal velinismo selvaggio, sconfina troppo spesso in un arido cinismo, forse perché le testate, tv e cartacee, vogliono solo quello per un fatto di marketing (come provano i casi di cronaca più recenti, da Sarah Scazzi a Yara Gambirasio, senza scordare la Franzoni a Cogne e Simonetta Cesaroni a via Poma, Roma). Se il passato non passa mai, anzi ritorna puntuale e magari pure degradato, e il tempo ha una modulazione circolare, Catanese, taccuino alla mano, ripercorre a ritroso le situazioni che possono far luce sul “giallo” dell’omicidio-Romualdi. Interroga con l’aria quasi indifferente, assopita del cronista dal fiuto sottile i vecchi all’osteria, raccoglie pettegolezzi in apparenza senz’importanza, rintraccia persino un vecchio prete, don Enzo, che ha la mania di segnare sui suoi polverosi brogliacci le gioie e i dolori delle “anime” affidate alla sua cura. Uno di quei personaggi molto frequenti in provincia, che fanno tanta tenerezza per la loro inossidabile umanità e fiducia nell’uomo nonostante tutto: infatti dà lezioni di latino gratis ai ragazzi che non possono pagarle. . . “Luce era una ragazza meravigliosa. Dolce, sensibile, forse un po’ troppo moderna, qualche volta… Ma anche lui non sembrava un cattivo ragazzo, gran lavoratore, poverino…”, chiosa il sacerdote. Ma il mal di vivere si annida ovunque e si scarica, quasi fosse un format della modernità, sull’anello debole della società del blog e del byte: la donna. Mariti, ex mariti, conviventi, amanti, fidanzati, compagni, amici, padri-padrone, spasimanti, ecc. sono i suoi killer quando rifiuta di essere oggetto, farsi schiacciare a un ruolo imposto dalla subcultura feticista dominante. “Bella in modo sconvolgente…”, Luce è assassinata, c’è un processo, e Manuel, che pure nega recisamente che la ragazza sia salita nella sua auto, è condannato. Quando si sparge la notizia che ha scontato meno della metà della pena, il livore arma un desiderio di vendetta trattenuto a fatica, un sentimento umano, troppo umano, ma non condivisibile perché dettato dal peggio di noi stessi. Da lì all’omicidio il passaggio è automatico. Quando non si ha fiducia nella giustizia terrena e anche quella divina è relativizzata, cosa resta da fare per cercare di placare un dolore rabbioso come una colica se non aspettare acquattati nella notte, avvolti da quella nebbia fitta che richiama “Amarcord”? Un libro di qualità, all’altezza dei precedenti del giornalista di origine napoletana nato nelle Marche, che ha trovato una sua dimensione stilistica si spera lungi dall’esaurirsi in un panorama letterario che offre ispide performance spacciate per capolavori unici da uffici-stampa astuti, ma che si rivelano, de facto, bluff deludenti. |